Letra de Vidomàr de Omar Pedrini


Letras de Omar Pedrini

Letra de Vidomàr
Avrò avuto sì e no 10 anni quando papà mi svelò il mistero di quello strano nome che mi portavo
appresso e mi valse ora la curiosità esotica delle ragazze, ora l’ilarità dei compagni di scuola, come non
bastassero già quegli occhialoni dalle spesse lenti rotonde che indossavo.
Comunque ti abbiamo chiamato come Sivori,
il più grande artista di tutti i tempi.
E all'inizio mi chiedevo cosa c’entrasse l’arte con un calciatore, visto che una certa frequentazione con
l’arte ce l’avevo ogni giorno vedendo quadri colorati entrare e uscire di casa, ascoltavo discussioni su un
film, su un libro.
Si, ma fu più tardi che mi resi conto con l’arrivo dei primo videoregistratore, un miracolo della
tecnica, di quello che questo strano omino in bianco e nero coi calzettoni sempre abbassati, la chioma
ribelle significasse.
Le sguardo vivo, un fisico meno allenato degli altri, un atteggiamento di sufficienza in campo e un
caratteraccio che spesso costava un cartellino.
Quanto bastava per innamorarmi di lui.
Il bello era che dopo aver corricchiato qua e là di malavoglia per il campo, quando meno te l’aspetti, eccolo
inaspettato.
Con un lampo di genio arriva un dribling decisivo, una giocata d’intinto, un tocco sotto come quando
senti Hendrix per la prima volta, e la palla morbida accarezzata che si adagia piano piano in rete.
In quella carezza c’era l'estasi, l'illuminazione, la gioia. Fu proprio allora che compresi che la
parola arte, la più pura
e pulita delle parole, talvolta può andare bene anche per uno sportivo.
E spesso questi atleti avevano in comune oltre che alla personalità nel loro gesto, condividevano
con gli artisti lo stesso dolore, la stessa lotta nella vita, una lotta con il destino nella vita
quotidiana.
Basti pensare a Coppi, al campionissimo, e non solo alla sua tragica fine ma alla sua malinconica vita.
O pensiamo a Muhammad Alì. Il suo impegno civile e le sue danze sul ring come fosse
una frase, un assolo di Charlie Parker, di Bird.
Pensiamo a Gilles Villeneuve, il funambolo triste, l'aviatore sospeso tra una curva e
l’infinito e l’infinito.
Un po’ come la tromba di Chet Baker scomparso misteriosamente come Bottecchia
qualcuno si ricorda di lui. Oppure le giocate e la creatività di John McEnroe nel
tennis, simili alle pennellate, agli schiaffi di vernice sulle tele di
Pollock e la sua indisciplina molto rock & roll, sfacciato come Keith
Richard, come gli Stones, appure a George Best, come a Piero Ciampi,
con la stessa passione per il bar.
Del resto, Carmelo Bene scrisse che per vedere l’arte bisogna
andare a San Siro quando gioca Van Basten.
San Siro, Milano per restare in Italia. Penso
anche a quei campioni un po’ incompiuti che hanno sfiorato il
cielo con un dito. Penso ai Lucchinelli, penso a Evaristo
Beccalossi con la sua allegria, le sue giocate o a Di
Bartolonei, a Dibba, che non ha saputo poi fare
i conti con la vita fuori dal campo. Simili al jazz
italiano, se vuoi, al suo splendore e alle sue miserie.
Alla poetica di Massimo Urbani e al suo sax e la sua vita.
E poi, l’ultimo dei grandi, L'Elvis dei campi
di gioco, il Re. Lui,
Diego Armando Maradona
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